Julian Barnes • Il senso di una fine

La mia edizione:
Vintage
Iª ed. 2012, pp. 160
ISBN 978-2080332042

Voto

★★★★★


 Nell’improbabile eventualità che io scriva un libro, mi chiedo spesso che genere di libro sarei in grado di produrre. Mettendo da parte la questione del talento che ahimè scarseggia, ovviamente, ma soprattutto dell’ispirazione che è una bestia capricciosa, mi sono riconosciuta negli stili di Starnone e Piccolo. No, riconosciuta è una parola grossa – ecco un’altra che si intrufola e ingrossa le fila di quegli italiani mediocri che gonfiano il petto e si auto-proclamano “scrittori”. Sarebbe meglio dire che gli stili di Starnone e Piccolo, che riescono a tirare fuori meraviglie anche dalle briciole di pane, sono quelli a cui aspiro. Momenti di trascurabile felicità mi ha scaldato il cuore, e per allargare un po’ lo spettro, Julian Barnes è un altro di quei mostri sacri a cui avvicinarsi con soggezione solo per poter dire: amo come scrive. E come desidero anch’io riuscire a incanalare, trasmettere e descrivere lo stato delle cose come fa lui. Storie mondane, di vita reale, senza drammi, senza aspirare a un fine alto, qualcosa di cui si può essere testimoni guardando alla finestra.

 Il senso di una fine ha qualcosa che mi ha ricordato in diverse occasioni Le vergini suicide – gli stati d’animo, i pensieri, le bizzarrie e gli slanci idealisti di adolescenti appassionati di poesia, filosofia e anarchia. Odora di Attimo fuggente. È per sé un testo senza fronzoli, con frasi precise che vanno dritte al punto. Barnes attraverso Tony valuta la vita e lo sfondo è sempre il tempo, indicatore intangibile che disperatamente cerchiamo di afferrare e misurare. Tutti abbiamo una storia di vita, con errori, domande, piccoli successi, paure, gioia, drammi e trionfi. Non tutti sono in grado di descriverlo, però. Ecco a cosa servono autori come Julian Barnes. Immerge il lettore in un potpourri postmoderno di segni fuorvianti, dichiarazioni ambigue, lungo strade che puntano in una direzione ma portano da tutt’altra parte. Barnes è brillante in queste deviazioni e rifrazioni di senso.

 Da dimenticare il viaggio interiore del personaggio che cresce, matura e si risolve: Tony non può “viaggiare”, è bloccato nel tempo soggettivo, all’epoca dell’orologio girato con il quadrante all’interno del polso. Questo è il “vero tempo”, secondo Tony, che “si misura nel rapporto con la propria memoria”. Il tempo è un solvente, dice, si deforma attraverso infinite distanze biografiche e collassa in resoconti aneddotici, fluisce tra la certezza storica e l’inaffidabilità dei ricordi. Ma dopotutto a fare la storia è solo la memoria dei vincitori.
 Il Tony di mezz’età lamenta di aver vissuto troppo cautamente, ha abbandonato le sue ambizioni perché percepite come irraggiungibili, non ha “né vinto né perso, ha lasciato solo che la vita lo portasse”. La vita è arrivata e se n’è andata, i momenti più importanti sono passati, rimane solo la sensazione della fine: si aspetta sempre di iniziare a vivere e ci si accorge troppo tardi che si è già finito.

In quei giorni immaginavamo noi stessi come prigionieri dentro un recinto, in attesa di essere liberati nel pascolo delle nostre esistenze. Quando fosse giunto il momento, la vita, e il tempo stesso, avrebbero subíto un’accelerazione. Come avremmo potuto sapere che in effetti le nostre vite erano già cominciate, che alcuni vantaggi ce li eravamo accaparrati e che qualche danno era già stato inflitto? E che, per di più, ci avrebbero solo liberati dentro un recinto più grande i cui limiti avremmo in principio faticato a riconoscere?

 Tutti abbiamo attraversato un’adolescenza avventurosa: eravamo i padroni di tutte le certezze e pensavamo che il futuro fosse nelle nostre mani. Eravamo sicuri che avremmo vissuto amori da romanzo rosa e che avremmo trionfato su tutti i fronti.
 Poi siamo cresciuti. La comodità si è insediata senza che ce ne accorgessimo e una certa insoddisfazione universale – impossibile darle un altro nome – ci devasta. Alla fine ci svegliamo e ci rendiamo conto che non siamo più chi eravamo, né tantomeno chi volevamo essere. Il tempo ci plasma, ci insegna a vivere con le nuove emozioni che la vita porta. La nostalgia riguarda i ricordi: tanti progetti che non sono stati realizzati, sogni che sono caduti nel vuoto, sono stati rimandati o semplicemente hanno perso la loro ragion d’essere.

Una delle differenze tra la gioventù e la vecchiaia potrebbe essere questa: da giovani, ci inventiamo un futuro diverso per noi stessi; da vecchi, un passato diverso per gli altri.

 Davanti agli occhi del lettore, la storia della vita di Tony comincia a fratturarsi e alla fine cade a pezzi. Questo non vuol dire che sia facile affezionarvisi: è una persona piuttosto ordinaria e qui sta la sua genialità. Ci si può identificare, ed è questo che fa scoppiare di tristezza. È in fin dei conti un libro triste, con una vena di pessimismo. Affronta in modo sublime il tema della morte: le circostanze, le persone coinvolte, il ricordo di chi resta e tutto ciò che è rimasto. Arriva prima o poi il momento di fare i conti con la vita, i dolori, i rimorsi, l’incapacità di tornare indietro e riparare agli errori – e il desiderio di redenzione. Il senso della fine è proprio questo, forse, il bisogno di avere la prova di essere state persone buone, di aver fatto qualcosa di buono, e di non aver sprecato il (proprio) tempo.

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