Madeline Miller • La canzone di Achille

Risvolto
 Madeline Miller, studiosa e docente di antichità classica, rievoca la storia d’amore e di morte di Achille e Patroclo, piegando il ritmo solenne dell’epica alla ricostruzione di una vicenda che ha lasciato scarse ma inconfondibili tracce: un legame tra uomini spogliato da ogni morbosità e restituito alla naturalezza con cui i greci antichi riconobbero e accettarono l’omosessualità. Patroclo muore al posto di Achille, per Achille, e Achille non vuole più vivere senza Patroclo. Sulle mura di Troia si profilano due altissime ombre che oscurano l’ormai usurata vicenda di Elena e Paride.

La mia edizione:
Marsilio
Traduzione di Matteo Curtoni, Maura Parolini
Iª ed. 2011, pp. 382
ISBN 978-8831780988

Voto

★★☆☆☆


 Sono lontani i tempi in cui alle medie spiegavano che Achille e Patroclo erano amici, e io, innocente e senza una goccia di malizia pensavo: okay, mentre gli altri diciassette ragazzini della mia classe ridevano sotto i baffi (biondi, i baffi dei dodicenni). Candore che mi è rimasto fino a quando ho iniziato a leggere questo libro, perché non ho mai veramente approfondito dato che l’Iliade non mi è mai andata proprio a genio, quindi tutto quello che so deriva dal Laterza Edizioni Scolastiche, Volume I. È stato con una buona dose di curiosità quindi che mi sono approcciata alla Canzone di Achille, complice il fatto che sullo scaffale ho anche Circe, sempre di Miller, che però devo ancora toccare. E spero che Circe, nonostante sia stato definito da molti (leggasi “tutti”) una rivelazione eccezionale, non sia lo strazio che è stato leggere quest’altro libro, leggere di questo Achille così poco caratterizzato da volerlo bucherellare con le dita per vedere se ha un po’ di sostanza o se è davvero sottile come velina.

 La storia è narrata da Patroclo, in prima persona. Prima Patroclo bambino, magrolino, rattrappito e negato in tutto, tranne per un’abilità particolare in cui eccelle: far rimbalzare sassi piatti sulla superficie del mare. E basta. Lui è l’unico elemento di sensibilità in una corte di trogloditi, e suppergiù a nove anni viene spedito in esilio nientedimeno che a Ftia, regno di Peleo, per aver ucciso per errore un altro bambino. Miller non si prende troppa licenza nel ricostruire la mitologia, grazie al cielo, almeno quello, ed è stato divertente ritrovare nomi più o meno noti, con Wikipedia aperta di lato per recuperare qualche dettaglio importante.

Aspè, chi erano Aiace e Agamennone, che iniziano tutti e due con la A e me li scordo sempre?
E poi, Menelao era il fratello di Agamennone? E Paride era il fratello di Ettore??

 Altro punto a favore, prima di iniziare con le note dolenti, la madre di Achille è piacevolmente diversa da come me l’aspettavo. Teti, ninfa del mare (da non confondere con Teti, o Τηθύς, Tēthýs, la Titanide), l’avevo immaginata come una creatura leggiadra, ultraterrena, perfetta, l’archetipo della ninfa per eccellenza, e invece Miller riesce magistralmente a far venire i brividi descrivendola come un mostro con occhi di pece, denti affilati e pelle bianca come ossa. Una reinterpretazione originale che ho apprezzato perché si distacca totalmente dall’idea che avevo, le dona un’aura di soggezione che calza perfettamente con l’immagine della divinità distaccata dalle bassezze umane. Gli dei non sono umani: gli dei sono di più. Gli dei devono incutere timore, e non solo le Erinni cattivone con i serpenti nei capelli, ma anche i più benevoli, in quanto esseri altri, su un diverso piano esistenziale.

 I capelli neri le scendevano sciolti lungo la schiena e la sua pelle risplendeva luminosa e impossibilmente pallida, come se avesse bevuto la luce della luna. Era così vicina che riuscivo a sentire il suo profumo, acqua marina e miele scuro. Smisi di respirare. Non osavo. «Tu sei Patroclo». Trasalii al suono della sua voce, roca e aspra. Mi sarei aspettato un mormorio melodioso, non pietre che digrignavano fra le onde. […] I suoi occhi erano diversi da quelli di un essere umano, neri al centro e screziati d’oro. […] Sentivo il suo respiro sulle guance, non era caldo, anzi, era gelido come gli abissi del mare. […] La sua bocca era uno squarcio rosso, rosso come lo stomaco aperto di un animale sacrificato, un oracolo di sangue.

 Comunque, per Teti non ho usato il paragone delle ossa a caso: se all’inizio è di impatto notevole, ogni volta che spunta fuori in episodi successivi è descritta da Patroclo sempre nello stesso, identico modo. Capelli corvini fluenti, veste cangiante, pelle bianca come ossa. Come ossa. Come ossa. Capito? Teti ha la pelle bianca come ossa. Mi rattrista questa pochezza di dettagli anche se non sono un’amante delle descrizioni minuziose, perché qui c’era del potenziale da sfruttare. In ogni caso ci si può mettere una pezza: non è la pecca più grande della storia, e qui veniamo ai due problemi di fondo di tutta la baracca.

 Uno, è un romanzetto rosa. Nella prima parte, quando si vorrebbe mostrare un Patroclo che cresce, matura e si scontra con il primo amore, vale a dire per le prime duecento pagine circa, la minestra è sempre quella. Pende dalle labbra di Achille, letteralmente: non fa altro che parlare dei riccioli biondi, del calore della pelle dai riflessi d’oro, della morbidezza delle sue labbra.
 Due, Patroclo è un inetto senza spina dorsale. Va da sé la tradizione che vuole i due su altrettanti piani opposti, uno sfavillante perché semidio e l’altro timido e goffo di suo, il tutto aggravato dal confronto diretto, ma qui si sfocia in un personaggio che non sta in piedi da solo. La seconda parte del romanzo vede Patroclo trovare la sua vocazione, finalmente, nell’accampamento degli achei sulle spiagge di Troia, ma questo non lo salva dal sospirare la sua sofferenza e l’infinita attesa della sera, dato che Achille ora è impegnato a trapassare con la lancia troiani e contadini di villaggi limitrofi, preso ragionevolmente da un universo maschile in cui lui, Patroclo, è inevitabilmente escluso.

 Insomma, fondamentalmente Patroclo si lagna per quasi quattrocento pagine. Non riuscirei nemmeno a giustificarne l’atteggiamento come reale preoccupazione per Achille sul campo di battaglia: la guerra vera e propria non è ancora iniziata. Infatti, non appena inizia, Patroclo decide di andare a farsi ammazzare travestito da Achille. E qui, ancora una volta, ho apprezzato la descrizione di Apollo, com’è stato per Teti:

 Una voce come musica sopra di me. Alzo gli occhi e vedo un uomo sdraiato sulle mura come se stesse prendendo il sole, i capelli neri lunghi fino alle spalle, un arco e una faretra a tracolla. […] L’uomo è di una bellezza dolorosa, la pelle perfetta e un viso cesellato che riluce di qualcosa di più che umano. Occhi neri. Apollo.
 Sorride, come se non avesse voluto altro che questo – che lo riconoscessi. Poi si sporge verso di me, il braccio che copre l’impossibile distanza tra il mio corpo e i suoi piedi. Chiudo gli occhi e sento solo questo: un dito che aggancia la parte posteriore della mia armatura, mi stacca dal muro e mi lascia cadere.

Mi sono accorta a posteriori che “i due problemi di fondo di tutta la baracca” sono in realtà uno solo: Patroclo, santo cielo, un po’ di seltz nell’acqua minerale che magari ti dà una botta di vita?

 Dopo tutta questa delusione per la caricaturina che è questo Patroclo, vorrei spendere un paio di parole su Achille: a farla breve non ci siamo, nemmeno qua. Sarà l’eroe, sarà semidio, ma è in fin dei conti un marmocchio arrogante, pieno di sé e sufficientemente passivo nella sua tronfiezza che due schiaffi non glieli leverebbe nessuno. Rassegnato a morire e aggrappato al proprio onore con le unghie e con i denti, l’importante è che sia lui a brillare: chi se ne importa se tutti gli altri periscono sotto le ruote di un carro. Esempio palese, Patroclo va a combattere al suo posto così che sia Achille a ricevere lodi e onori per aver aiutato i compagni nella battaglia, quando in realtà è troppo orgoglioso per dare una mano e se ne rimane nella tenda per tutto il tempo (comodo lui). Non combatterà perché Agamennone lo ha ferito nell’onore, nell’onore, nell’onore, anche qui un botta e risposta di cinque pagine che si poteva tranquillamente evitare, tanto il succo quello è. Non leggiamo la storia attraverso i suoi occhi, e non ci è dato sapere nulla di quello che pensa, d’accordo: se ci fosse stato un po’ di spazio per lui, forse non farebbe così innervosire averci a che fare una riga sì e una no.

 Infine, qualche nota tecnica: la scrittura è scorrevole, agevole e relativamente diretta, senza troppi orpelli su un tema che di orpelli proprio non ha bisogno; Miller, ripeto, sa il fatto suo per quanto riguarda la mitologia greca, anche se il libro nel complesso dà più l’idea di un romanzo per adolescenti solo vagamente ispirato alla mitologia vera e propria.

Bonus: alla fine naturalmente compare anche Neottolemo. Un ragazzino di dodici anni che saccheggia e uccide come un mercenario vissuto. Se Achille era antipatico, il figlio non poteva uscire diverso, se non peggio: da appendere al soffitto per gli alluci. Vuoi che una volta si fosse tutti più precoci, ma tutto sommato l’ho visualizzato come un ragazzino spocchioso col moccio al naso e una corona che gli casca sugli occhi, troppo grande per la sua testa.

2 pensieri riguardo “Madeline Miller • La canzone di Achille

    1. Parecchi anni fa ho letto “Itaca per sempre” di Malerba: non solo capovolge il punto d’osservazione (ritorno di Odisseo narrato da Penelope) ma stravolge tutto quello che si accetta come canonico a proposito della vicenda. Questa sì che è una rivisitazione dell’antico che merita! Consigliatissimo. E mi è venuta voglia di rispolverarlo e commentarlo anche qua.

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